Elisa Dama si forma al magistero d'arte di Tabusso, valente artista torinese nel cui ambiente, la nostra pittrice coglie essenziali suggerimenti di stile e di forma, nella suggestione di un simbolismo ...
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TESTIMONIANZE
Nata a Cologne nei primi anni del secondo dopoguerra (1947), Elisa Dama approda a Bergamo all’inizio degli anni sessanta, per seguire i suoi interessi artistici e le sue inclinazioni; si iscrive al neonato Liceo Artistico Statale, formatosi nel 1961, come sezione staccata dell’omonimo Liceo, annesso all’Accademia milanese di Brera.
Incontra come docente Francesco Tabusso, distaccato da Milano e inviato ad occupare il dipartimento di “pittura” nella nuova sede: è il primo colpo di fortuna di Elisa, visto che Tabusso, a quell’epoca, è considerato l’erede - e probabilmente lo è davvero, sul piano stilistico - di Felice Casorati (che muore in quegli anni, nel 1963). Tabusso è un importante pittore; ha assorbito gli influssi del maestro, ma anche quelli della città di Torino, in cui è cresciuto; per la sua storia, per quanto nato in Lombardia, viene giustamente considerato un pittore piemontese. La seconda fortuna di Elisa si collega a quest’incontro: Tabusso non è solo un estremo esito del rigore casoratiano, ma anche il “naturale” tramite con la città di Torino, che avrà alcuni influssi indiretti sulla produzione di Dama.
Al giro di boa degli anni sessanta, si colloca lo snodo italiano delle neo avanguardie – potremmo indicare l’anno 1963, data di nascita del sodalizio poetico che dal nome dell’anno assume il proprio (Gruppo 63), ma potremmo anche ampliare l’osservazione a tutto il decennio sessanta, in cui la cultura torinese vive una stagione di crescita esponenziale, favorita probabilmente dalla presenza di Luigi Carluccio, che negli anni sessanta firma alcune delle più significative esposizioni del II dopoguerra. All’indiretto influsso “torinese” che vedremo di definire, va aggiunto quello milanese. Nel periodo in cui l’adolescente Elisa viaggia da Cologne a Bergamo per studiare al liceo, Milano continua a pesare non poco nella cultura del territorio lombardo, tra Brescia e Bergamo; Milano appare riferimento non eludibile, cui si aggiunge quella di Torino, assorbita indirettamente attraverso il professore.
Da Torino, due riviste sono probabilmente giunte allo sguardo e alla curiosità della giovanissima studentessa, da un lato la “storica” rivista diretta dal suo professore (“Orsa minore”, nata nel 1953, cui aderiscono alcuni importanti pittori torinesi, ma anche intellettuali come il poeta Edoardo Sanguineti, esponente di primo piano del “Gruppo 63”), dall’altro lato una rivista nata proprio negli anni sessanta, che divulga in Italia il verbo surrealista, Surfanta (acronimo di Sur-realismo e Fanta-sia), rivista e movimento artistico che rinnovano la lunga eco del surrealismo, che aveva chiuso la stagione delle avanguardie storiche (1924) e, tra le due guerre, aveva trovato solo pochi sbocchi in Italia.
Il primo catalogo della “nostra” autrice è del 1971 – un rapido calcolo: ha 23 anni e sta entrando nella vita attiva, dopo gli studi e la formazione – stampato per la prima personale nella bresciana Galleria San Michele; a p. 2, in un testo autobiografico ultra essenziale, ricorda che “ha frequentato il liceo artistico di Bergamo sotto la guida di Francesco Tabusso”, e quasi a completare le informazioni essenziali, a p. 3 riproduce, in bianco e nero naturalmente, una sola opera, intitolata “Ricostruzione di un sogno”.
Tabusso e sogno, ovvero Tabusso e surrealismo: il surrealismo rimane filo rosso sotterraneo di tutta la sua produzione, e vi rimane in forme sostanziali. L’insegnamento di Tabusso appare attivo nella pittura di Elisa soprattutto nel periodo iniziale; influenza importante e stilisticamente utile, decisiva per certe scelte espressive, tende a spegnersi, anche rapidamente, a mano a mano Elisa diviene autonoma e matura nel suo fare poetico. Non si scordi, in questa essenziale introduzione sull’attività artistica, che alla mostra personale indicata (1971), alle numerose presenze in mostre collettive e nei concorsi, scelte così tipiche di una stagione che attraversa il secondo dopoguerra, fino alla fine degli anni settanta, in definitiva nella stagione dell’attività di Dama, vanno aggiunte due sole esposizioni personali, entrambe presso la Galleria “La Cornice” di Desenzano del Garda, la prima nello stesso 1971, la seconda oltre dieci anni dopo, nel 1982. Poi, l’attività espositiva viene (quasi) a scomparire e vengono meno le presenze in concorsi e rassegne; le testimonianze di chi l’ha conosciuta ci dicono che Elisa produce opere solo per se stessa o per gli amici, cui le dona.
L’opera d’arte come parte di sé, poco “prezzabile” dunque, l’opera d’arte come filigrana in controluce dell’animo, poco mescolabile con i ritmi di un mercato che, facendosi maturo, diviene più frenetico, richiede quantità commisurabili per stile, temi, formato e in parte spersonalizza. E tuttavia la “sfida” con se stessa, costituita da ogni opera, rimane il filo conduttore di tutta la sua produzione; l’opera è sempre una domanda, che apre ad una possibile risposta; l’opera è un problema posto in termini iconografici.
A conferma, sembra utile riprendere a questo punto quel che l’Autrice stessa scrive nell’ultimo dei suoi cataloghi (1982), a conclusione di una serie di riflessioni critiche di estimatori e amici: “È facile scalare una piccola montagna rossa, / difficile è non ascoltare le strane voci; / se riesci hai trovato le porte del tempio”.
La persona, l’individuo, la riflessione libera e personale sull’uomo, appaiono come l’ambito prioritario da sommare ai pochi dati disponibili di una biografia schiva, così rara in un contesto che si avviava al vociante apparire di superficie; e forse ci aiuta assai più e assai meglio nel tentativo di rileggere la sua non troppo vasta produzione.
Si aggiunga che questa chiusura in se stessa costituisce la terza, individuale ricchezza di una persona, che attraverso il segno ha voluto lasciare una traccia, diversa, poetica, nei confronti dell’altra, umana, lasciata in eredità a chi l’ha conosciuta.
Il cammino artistico di Elisa inizia con alcune prove giovanili, spontanee in una certa misura, anche se nella pubblicistica del tempo possiamo intravedere le prime fonti d’ispirazione. Il nostro percorso inizia, probabilmente, con un “Paesaggio” (p. 10), opera ad un tempo ingenua e poetica; documenta una sorta di effusione lirica nei confronti della natura, interpretata come un bene da conservare nello sguardo. Nella sua essenzialità, il paesaggio sembra recuperare le immagini della pittura figurativa dell’età tra le due guerre, interpretata liberamente. In questa stagione giovanile, prima delle influenze di scuola, Elisa si muove guidata solo dal “piacere” dello sguardo, dalle attrazioni, dagli “innamoramenti” tipici di un giovane talento, che nascono a contatto con immagini ritrovate per avventura nel cammino della vita e sovente rapidamente muoiono.
In questa carrellata giovanile si scoprono le qualità innate, il bisogno di dire; appare l’opera come testimonianza di sé: come leggere altrimenti quella “Deposizione” (p. 11), una sofferta immagine della Madre con il Figlio disteso, o come leggere il più maturo “Notturno” che sembra influenzato da certi azzurri di Chagall, recuperati magari non in presa diretta, ma attraverso riproduzioni a stampa?
È una lunga preistoria quella della giovanissima pittrice, che si misura con il mondo delle immagini, avida di assorbire tutto quello che viene dalla cultura che la circonda (scuola e vita quotidiana).
Chiaramente datata nel retro, 1968, l’opera “Senza titolo” (p. 14) si propone come incunabolo della ricerca matura dell’Autrice; l’iconografia è caratterizzata da un gruppo di figure femminili accostate, quasi accovacciate. Non è delineato lo spazio, manca ogni prospettiva, così come manca un’indicazione narrativa. Figure; figure e basta, strette una all’altra; una sorta di bianco e nero con pochi accenni di colore in un insieme che si caratterizza come omaggio al suo Maestro d’accademia. Non sappiamo se Elisa Dama abbia potuto conoscere, in quella stagione, uno scultore lombardo di qualità, appartato dalle vicende della storia dell’arte, anche se proprio negli anni sessanta, il suo nome rientrava dalla finestra nelle cronache artistiche; parliamo di Giuseppe Gorni, mantovano, che nelle forme e nelle figure femminili accovacciate esprimeva la tenerezza e la forza delle nostre “rasdure”. Può darsi che Elisa abbia incontrato le opere dello scultore, esposte più volte a Milano; ma potrebbe essere giunta ad una figurazione solida e compatta, puramente formale, senza dettagli e indicazioni descrittive, attraverso Tabusso e, più su, attraverso Casorati.
È l’opera da cui pare opportuno partire; al di là dei possibili riferimenti, nell’assoluta pulizia dell’immagine si può scorgere una sintesi anticipatrice di numerose scelte linguistiche successive.
Nello stesso periodo, realizza un gruppo di opere che sono, in forme proprie, riconducibili alle influenze che abbiamo appena segnalato. Sul finire del decennio sessanta (1967), Elisa ha 20 anni: coesistono in lei ricerca d’autonomia e memoria del Maestro dalla lunga e importante storia. Nel limitato gruppo di opere recuperato e datato, vanno indicate ancora “Due figure al tavolo” (p. 13), interpretabili come una sintesi formale non dissimile dalla precedente; ma già alcuni elementi, prospettiva, cromie, sigla stilistica, ci aiutano a collocare la ricerca di Elisa in una dimensione più propria: pensiamo all’uso dei bicchieri in primo piano o al vaso con fiore, per segnare quel riferimento accademico che stiamo esplorando; cui si aggiunge quell’irruzione della fantasia della giovane, che evidenzia una sintesi tra immaginazione e ironia, una costante in tutta la sua opera: dietro al disco di luce (una luna?) Elisa fa spuntare “diavoletti” dallo sguardo rosso; non incutono paura, sono come i folletti delle fiabe; aiutano gli uomini. Qui osservano di soppiatto, con ironia forse, la conversazione dei due personaggi femminili, certi di conoscere le verità inconfessabili degli uomini.
È chiaro dunque che Elisa vuole raccontare, senza confondersi con la storia e senza scendere nel quotidiano; se ne sta appartata, guarda il mondo da dietro il disco luminoso, fino a scivolare in una “Composizione” (p. 16), dove i dati simbolici, le sagome nere sullo sfondo, dialogano con il fogliame che sembra alludere a figure: è come se Elisa volesse ricondurre a misura l’intero universo e volesse raccontare da lontano un mondo pieno di slanci e di vivacità, ma anche di meditati e sotterranei sorrisi. Tra narrazione e incanto, potremmo dire.
Non vuole ascriversi ad una moda o a una corrente: “ascolta il suono dei fiori / quando sbocciano” scriverà molto più tardi, segno di indipendenza dalle mode. Nella sua opera che evolve, rimangono i bisogni di essere attraverso l’immagine, a volte attraverso la parola, se inseguiamo i suoi appunti ritrovati o le lunghe titolazioni che descrivono i disegni; rimangono i segni di una testimonianza che cerca di esprimere un’individualità, alla ricerca di una personale autenticità. La giovane autrice non spreca il nucleo di formazione spontanea e talento da cui è partita e porta a misura gli apprendimenti della formazione guidata; lentamente Elisa tende a staccarsi da formule consuete, per giungere nel volgere breve di pochi anni (tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo) a una figurazione ridotta, schematica, in una certa misura fumettistica. Lo schematismo serve a Dama per ironizzare, sottolineare con distacco, esprimere con saggezza e malinconia il suo interno sentire.
In un testo di Oscar Di Prata, che funge da “Presentazione”, insieme ad una “Lettera aperta” (“Cara Elisa,”) di Umberto Benedetto, si possono leggere riflessioni critiche che vale la pena di scandagliare per entrare nel mondo poetico della nostra autrice: Oscar Di Prata, pittore che spesso si è destreggiato nella scrittura, non solo critica, scrive che quello di Elisa Dama è “uno strano “assemblage” linguistico di forme e colori emblematicamente espresso, con criterio di sintesi e di ordine”; in questa pittura si ravvisa, secondo Oscar, “una specie di raffinato rebus dell’immagine”, in cui le cadenze realistiche e narrative si declinano in strutture che aprono all’immaginazione, aprono finestre di pensieri, intuizioni rapide, conclusioni a volte amare. Tra passione e ironia, scorre una visione della quotidianità, in cui forse il tono complessivo scivola più facilmente in una visione malinconicamente amara; l’ironia porta a volte al sorriso, ma serve solo a sostenere una lettura inquieta: “mi sono armata di cattiveria … / mentre percorrevo quella strada. / Ho incontrato un uomo (con occhio / di animale - coda d’uccello - casco d’asino - / zampe di radici), terribile, con l’odio / la cattiveria, l’invidia il rancore / Ho lottato per cercare l’amore / in fondo a quella strada”.
È utile usare i pensieri di Elisa per sorreggere e puntualizzare l’indagine critica. Siamo nel 1982; siamo ormai entrati in quella produzione di ascendenza surreale che segna una buona parte della vicenda espressiva di Elisa Dama.
La nuova immagine offre una sigla espressiva che si distende per tutto il decennio, tra gli anni settanta e gli ottanta, da cui si verrà discostando solo quando l’Autrice decide di allontanare da sé la pittura come unica esperienza espressiva. Dopo la mostra alla “Cornice” di Desenzano, da cui abbiamo tratto le riflessioni di Oscar Di Prata, non abbiamo più un’attività espositiva, ma un diverso modo di utilizzare l’immagine; le opere documentano da quel momento, solo una parte, anche occasionale, dell’individuale sguardo sul mondo. Questa svolta segna una sorta di spartiacque tra il bisogno di essere nell’arte e il bisogno più intenso e più necessario di essere nella vita: “Amica cara / sono stanca e rabbiosa. Ogni / giorno ringrazio il cielo, il sole, il vento / … apparecchio l’animo alla lotta”: anche questa, come la precedente, è un’annotazione tratta da quegli appunti, non datati, che ci aiutano a capire l’animo della nostra pittrice.
Abbiamo fatto riferimento al fumetto; ma è termine improprio.
Elisa Dama riconduce l’immagine della figura umana ad una sorta di duplicità rappresentativa; mentre una parte viene evocata in forme figurali, con volti normalmente ben delineati, sovente anche il tronco delineato con un rigore, con una verosimiglianza, soprattutto segnata da sottolineature espressive, a volte dolorose, il resto del corpo viene ridotto a manichino, stilizzato, semplificato; e maturo. Non è scelta di ripiego, ma scelta linguistica. Il contrasto evocativo del volto o di una frammento del corpo con l’intero corpo del manichino, serve probabilmente a suggerire la società massificata (considerati i tempi potremmo pensare all’Uomo a una dimensione di cui parlava Marcuse in quegli anni), appare come un aspetto cercato/voluto di una riflessione.
Elisa dichiara apertamente di non voler solo evocare la gioia o il dolore, ma dichiara di voler porre in relazione singolarità e massa, confutando una presenza omologante da cui occorre (o occorrerebbe) tirarsi fuori: la vita è altrove, sembra dirci la nostra pittrice.
Da qui il senso costante dell’aforisma e della massima, come carattere delle sue opere; da qui i titoli lunghissimi che non sono titoli ma riflessioni a cuore aperto, frasi scritte per colui che leggerà e conserverà il suo pensiero. Da qui non solo un’ipotesi critica, ma anche la scelta di uscire dalla “mischia” della produzione artistica, il rifugio nella biblioteca, nel progetto educativo e culturale, cui la pittura non può pienamente rispondere o non può costituire unico strumento. Il passaggio stilistico costituisce una scelta che va oltre le esperienze espressive, da cui era partita tanti anni prima, di cui rimane puntuale memoria: a meno di un ventennio dalla data di partenza, il ruolo della ricerca artistica ha mutato senso - e si comprende la non partecipazione a concorsi, l’uscita dal mercato, la produzione dell’opera come espressione complessa di un pensiero da donare alle persone conosciute. Il nuovo mondo che Elisa delinea è un mondo dal sorriso amaro; la figura stilizzata che diviene protagonista del suo spazio poetico è sicuramente derivata dal vignettismo, ma sarebbe improprio collocarla in quell’ambito; essa documenta piuttosto il recupero dell’amara invenzione surreale. Il suo è il protagonista che si dibatte contro le insormontabili difficoltà del vivere; il suo personaggio è l’uomo anonimo, che si misura con le contraddizioni dell’esistenza e soccombe. A ben vedere tutti noi siamo il personaggio di Elisa, quell’omino stilizzato, ridotto a una linea, capace, come i personaggi dei fumetti, di sdoppiarsi e modificarsi, rimanendo sostanzialmente il “perdente” che Elisa vuole raffigurare: amare gli altri diventa l’unica “vittoria” possibile.
Non abbiamo conosciuto la pittrice; non sappiamo se questa sua visione del mondo sia pessimistica o rappresenti la sofferta riflessione sul mondo e costituisca una sorta di talismano, un sorriso per non chiudere i ponti con la vita, o un sorriso per non cedere, una lettura amara per non abbandonarsi alla “trappola” dell’ottimismo, così presente nella società affluente che attraversa il decennio ottanta (e non solo): “Le peggiori cose della vita / non sono le meschinità / che si sono dette / ma …/ le cose mai dette”. Ritroviamo in questi rari appunti diaristici, purtroppo senza datazione, ma collocabili nel giro degli anni che stiamo analizzando, la sintesi narrativa di ciò che i disegni sembrano proporci. Non casualmente il “mestiere della pittura” viene meno, o almeno si attenua, tanto professionalmente quanto produttivamente. Né è casuale che nell’ultimo periodo della sua vita, alla fine, Elisa abbandoni in parte l’omino, il personaggio-chiave del suo mondo espressivo, per ritornare, occasionalmente, qua e là, alla pittura come l’aveva praticata negli anni formativi. Non è più interessata all’arte, in forme dirette; è interessata alla saggezza. Vuole verificare se stessa e il suo rapporto con il mondo. Vuole che la pittura esprima quel che ha accumulato nella vita, … in classe come allieva, in classe come docente, poi come educatrice e come animatrice culturale; è un progetto cui la pittura può dare un limitato apporto.
La pittura, il disegno ritornano come occasioni di riflessione, di svago anche, di recupero delle energie probabilmente. Il disegno è rappresentazione del pensiero; le frasi, le citazioni accompagnano, non titolano il disegno; sono controcanto e amplificazione, non semplice cifra segnaletica. Per questo i disegni vengono affiancati dai testi, messi giù, disordinatamente, come un diario interiore; e le frasi non apposte sui disegni, rimaste su frammenti di carte, vanno collocate anch’esse come appendice in questa indagine complessiva su una ricca personalità. È bello, maturo anche, il nuovo disegno che ogni tanto l’autrice propone come memoria di sé; inconsapevolmente, Elisa delinea una sorta di arte come testimonianza, come stava accadendo nel mondo dell’arte. Ma si sente fuori, si sente forse realizzata altrove. Anche se con attenzione i suoi segni/disegni vanno pur letti come documento di una vitalità interiore che ha trovato nell’arte, per un certo periodo di una breve vita, lo spazio d’espressione di un io complesso, pieno di slanci e di rigorose misure morali.
- Gussago, autunno 2013 -